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DALLA

Scritto da il 28 Febbraio 2022

Sono passati dieci anni dalla morte di Lucio Dalla: il primo marzo del 2012, tre giorni prima del suo compleanno numero 69, Lucio non si è svegliato. La sua ultima esibizione non è stata un concerto come tutti gli altri: si era infatti esibito a Montreux, uno dei festival jazz più importanti del mondo e per lui, che era nato jazzista, rappresentava quasi una laurea honoris causa.

Era un personaggio inimitabile, irresistibile e indecifrabile per la sua vocazione naturale ad essere universi molteplici, il principe e al tempo stesso il vagabondo, per usare una sua citazione. Aveva un talento smisurato: l’aneddoto più divertente sul tema lo racconta Pupi Avati, suo amico per tutta la vita, e risale ai tempi in cui, alla fine degli anni ’50, il regista era il clarinettista della Rheno Dixieland Band. Quando nella band entrò quell’adolescente strambo che già suonava il clarinetto da virtuoso, Pupi abbandonò la musica. Ma prima, confessa, durante una visita a una delle torri di Bologna, ebbe l’istinto di spingerlo giù, accecato dall’invidia.

Dalla è stato un autodidatta e non aveva particolari conoscenze teoriche eppure da ragazzo ha suonato con grandi del jazz come Chet Baker (le collaborazioni con Michel Petrucciani e Stefano Di Battista risalgono alla maturità) poi è stato capace di creare, prima ancora che uno stile, un suo codice musicale, plasmando e reinventando a suo piacimento la forma canzone. Uno così poteva nascere solo a Bologna, la città madre cui è rimasto legato per tutta la vita, ricambiato da un amore incondizionato. Quando era un ragazzino Bologna era una delle culle italiane del jazz, poi, anche grazie a lui, è diventata il riferimento dei giovani cantautori, mentre a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 è stata il centro propulsore della creatività del nostro Paese.

Non si può capire Dalla senza Bologna, quella delle osterie e di piazza Grande, uno dei più celebri luoghi della mente delle sue canzoni. Per come si sono evolute la scena e l’industria musicali oggi non sarebbe stata possibile una carriera come la sua: un lento e tutt’altro che facile avvicinamento al successo accompagnato da una certa diffidenza nei confronti di un talento dai comportamenti imprevedibili. Alla fine il vero successo è cominciato nel 1977 con “Com’è profondo il mare” quando aveva 34 anni. Oggi il tempo di aspettare nell’industria della musica non esiste più. Per fortuna Dalla il tempo lo ha avuto, anche quello di decidere di fare tutto da solo scrivendo anche i testi delle sue canzoni, prima affidati soprattutto a Sergio Bardotti e Gianfranco Baldazzi e poi al poeta Roberto Roversi con cui ha realizzato la celebre trilogia “Il giorno aveva cinque teste”, “Anidride Solforosa” e “Il futuro dell’automobile e altre storie”.

“Come è profondo il mare” segna la nascita del Lucio Dalla che è entrato nella storia della cultura e del costume del nostro Paese: non più figura di culto e protagonista di incredibili gag dai musicarelli nel West con Rita Pavone a Dario Fo ai viaggi in macchina insieme a una scimmia a padre nobile della musica italiana, capace di parlare a tutti, interpretare il sentimento del Paese, anticipare il futuro. Il suo è un canzoniere di capolavori, alcuni famosissimi altri nascosti tra le pieghe di un repertorio straordinario: nel frattempo coltivava interessi diversissimi, la passione per l’arte e per il cinema insieme al suo amico Mimmo Paladino, giocava con la televisione, metteva in piedi, con “Banana Republic” e insieme a Francesco De Gregori, uno dei primi tour kolossal made in Italy negli stadi, si avvicinava ai suoi antichi amori operistici con “La Tosca”, aiutava Gianni Morandi a rilanciare la sua carriera con lo storico tour “Dalla Morandi”, conosceva un successo mondiale con “Caruso”.

Un personaggio capace di essere amico di senza tetto e grandi della terra, religiosissimo e iconoclasta, un inventore di balle gigantesche e scherzi micidiali, capace di rimanere sempre un passo avanti rispetto ai meccanismi del successo e della fama. Non per niente sul citofono della sua celebre casa di via D’Azeglio a Bologna, oggi sede della Fondazione, c’è scritto Comm. Domenico Sputo. Gli italiani lo hanno visto per l’ultima volta il 18 febbraio 2012 a Sanremo, quarant’anni dopo l’ormai mitica esibizione di “4/3/1943″. Era arrivato all’Ariston come padrino di Davide Carone nella doppia veste di direttore d’orchestra e cantante. Poi il concerto al festival di Montreux. Sono passati dieci anni dalla sua morte e, insieme alla mancanza per l’assenza di un personaggio irripetibile, si avverte la sensazione di una presenza costante, come se non fosse mai andato via.

E’ il potere della musica scritta da un genio che coltivava l’arte dello sberleffo ma che sapeva scrivere versi dolorosamente tornati d’attualità: ”Adesso basta sangue ma non vedi/Non stiamo nemmeno più in piedi, un po’ di pietà/ Invece tu invece fumi con grande tranquillità /Così sta a me, a me che debbo parlare fidarmi di te /Domani domani domani chi lo sa che domani sarà/ Oh oh oh chi non lo so quale Dio ci sarà/ Io parlo e parlo solo per me”. (Ansa)- ( articolo tratto da MUSICMAP il tuo sito di informazione musicale)


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